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Giovani imprenditori:
«un contratto che merita»
 
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Federica Guidi: «Sindacati e imprese, cambiamo cultura»

di Nicoletta Picchio

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Federica Guidi, presidente dei Giovani industriali (Stefano Capra/Imagoeconomica)

La premessa è la «mutazione genetica» che sta avvenendo nel mondo delle imprese, non solo nelle grandi, ma anche tra le più piccole. La conseguenza è che se cambia il modo di lavorare e di stare sul mercato, deve modificarsi anche la vita dentro l'azienda. E cioè il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore e tutto il complesso delle relazioni sindacali. «È un processo che si è avviato ma che è in continua evoluzione. Sarà la sfida del futuro per continuare a essere competitivi». Federica Guidi, eletta un mese fa presidente dei Giovani imprenditori di Confindustria, non a caso ha scelto questo tema come primo spunto di riflessione del suo mandato (durerà tre anni).

Sarà il focus del suo debutto pubblico, il convegno di Santa Margherita, il 6 e 7 giugno. "Un contratto che merita", è il titolo che condensa in uno slogan l'obiettivo delle imprese: legare sempre di più salari, merito e produttività. A breve dovrebbe partire la trattativa sulla riforma dei contratti tra Confindustria e sindacati ma la Guidi non vuole entrare nei dettagli del negoziato. «Ci interessa guardare avanti, a un possibile scenario tra cinque o dieci anni. La riforma di cui si discuterà nelle prossime settimane sarà solo il primo tassello di un cambiamento culturale che dovrà spingersi oltre», dice la Guidi. «È questo – continua – il ruolo del movimento dei Giovani: essere una punta avanzata del dibattito in Confindustria e nel Paese. Partiamo dal contingente per dare una visione della mutazione genetica che sta riguardando le aziende e spingerci avanti, per migliorare il livello culturale di entrambi gli attori, imprese e sindacati».
Al di là dell'attualità del negoziato, ritiene che siano le relazioni industriali un nodo fondamentale per la crescita?
Sì, penso che siano uno dei driver principali dello sviluppo. Nel mondo che si evolve, con mercati globali, con ritmi molto più rapidi rispetto al passato, le regole in azienda, il rapporto tra capitale e lavoro deve avvenire in modo diverso.
Che cosa non funziona oggi e come deve cambiare?
C'è troppa rigidità che non interpreta la realtà delle imprese. Oggi le aziende, anche le medie e le piccole, sono multilocalizzate. Hanno centri di ricerca in Italia e magari stabilimenti o joint venture all'estero. C'è bisogno di flessibilità, di rapidità delle decisioni, di un modello di relazioni industriali che interpreti e faccia da moltiplicatore a questo nuovo modo di lavorare.
È l'obiettivo del negoziato che partirà...
Bisogna andare oltre. Oltre a cambiare le regole bisogna che cambi la cultura aziendale, di sindacati e imprenditori. Bisogna legare il salario al merito e alla produttività, coinvolgendo tutti i lavoratori anche ai livelli più bassi. E, fermo restando che la contrattazione aziendale deve rimanere facoltativa, bisogna fare un salto di qualità culturale: il secondo livello dovrà diventare un contratto che le aziende naturalmente utilizzano perché ne hanno un beneficio.
I sindacati hanno sempre denunciato il fatto che i contratti aziendali siano poco diffusi. Anche le aziende devono fare un passo avanti?
Sì, è così. Il mondo imprenditoriale deve compiere un percorso culturale. Non vogliamo nascondere le difficoltà che ci sono anche tra di noi. C'è bisogno di tempo: le imprese si devono abituare a gestire in modo più dinamico la flessibilità in azienda. Comunque bisogna constatare che stanno aumentando le realtà anche piccole dove si contratta a livello aziendale e si unisce il salario al merito e alla produttività. La flessibilità, la capacità di gestire quasi «ad personam» il rapporto con i propri dipendenti dovrà essere percepito dalle aziende un vantaggio, un punto di svolta per utilizzare forme più evolute di relazioni industriali.
Il sindacato potrebbe essere indotto a frenare, temendo per il suo ruolo...
Non è questo l'obiettivo. Quando dico «ad personam» intendo che deve cambiare anche l'approccio dei dipendenti. Devono vedersi più imprenditori di se stessi, all'interno di una cornice di garanzie previste dal contratto nazionale. Noi vogliamo valorizzare il capitale umano. Certo, spingiamo per un salto culturale non banale, dove al centro c'è l'impresa: è lì che si crea la ricchezza e viene redistribuita, con rapporti sempre più flessibili e sempre più veloci, a livello quasi individuale, nel vantaggio di entrambi, sindacati e aziende, per affrontare al meglio l'unico vero tema: far stare sui mercati le imprese nel mondo sempre più competitivo e con una produttività sempre maggiore. Tenendo presente che è la meritocrazia il vero ascensore sociale. Oggi, con gli strumenti che abbiamo, non riusciamo a dare una prospettiva di crescita alle nuove generazioni.
Lei sottolinea il valore del capitale umano: nel salto culturale è prevista anche la partecipazione dei dipendenti all'azionariato aziendale e nel consiglio di sorveglianza, come sta sostenendo il ministro Sacconi?
È una riflessione interessante, ma penso che si travalicherebbe il confine dei rapporto tra datore di lavoro e dipendente. La gestione spetta all'imprenditore. E il vero problema è collegare la retribuzione al merito e alla produttività, realizzando così forme avanzate di partecipazione.
  CONTINUA ...»

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